Home Page Italian version
Atti del 1° Seminario Europeo "Falcon One" sulla Criminalità Organizzata Roma,
26 - 27 - 28 aprile 1995
Subscription Stampa Sommario
1. Introduzione
1.1. Una prolungata, quasi ventennale, emergenza in tema di criminalità organizzata ha posto a più riprese l'Italia nella necessità di dover elaborare forme di intervento sempre più incisive per fronteggiare gli attacchi e le insidie provenienti da associazioni criminali di tipo eversivo, mafioso o mafioso eversivo.
1.2. La avvertita consapevolezza della virulenza e delle dimensioni delle varie consorterie criminali ha imposto allo Stato italiano la individuazione di strumenti agili e sofisticati idonei a fungere da adeguato contrasto rispetto al poliedrico e mutevole atteggiarsi dei fenomeni da combattere: fenomeni che, come è stato detto, sono giunti a rappresentare una sorta di "esiziale cancro che intacca profondamente il tessuto economico sociale e produce metastasi in grado di minacciare da vicino il cuore stesso dello Stato" (così il "Rapporto Italia" Documento introduttivo a cura del Ministero di Grazia e Giustizia alla Conferenza mondiale dei Ministri della giustizia sul crimine organizzato trasnazionale: Napoli 21-23 novembre 1994).
1.3. Nell'Ordinamento giuridico italiano vigono perciò, ormai da qualche tempo, disposizioni che mirano a contrastare il crimine organizzato sotto una molteplicità di aspetti agendo sui vari momenti del suo manifestarsi e privilegiando, di volta in volta e a seconda dei casi, il versante della prevenzione ovvero quelli del trattamento sanzionatorio, processuale e penitenziario.
1.4. Si tratta di disposizioni fra loro strettamente connesse e meritevoli di una lettura unitaria. Esse disegnano infatti, un sistema composito nel quale l'una disposizione trascina l'altra e nel quale la modifica di una norma può produrre effetti impensabili sulla operatività di altre norme apparentemente incidenti su versanti completamente diversi. È il caso, tanto per fare un esempio, della norma che prevede un trattamento penitenziario "premiale" per i boss mafiosi che collaborano con la giustizia e la cui "produttività investigativa" dipende anche dalla modalità di applicazione della opposta norma che stabilisce un trattamento penitenziario di assoluto rigore per i boss mafiosi che rifiutano la "collaborazione" mantenendo un atteggiamento processuale di totale "chiusura".
1.5. Quello della interdipendenza fra le varie disposizioni in materia di criminalità organizzata può ormai ritenersi un dato certo e di essenziale importanza. Fra l'altro il dato della interdipendenza serve anche a spiegare per quale motivo qualsiasi modifica al sistema vigente venga spesso guardata con apprensione nel timore che essa possa rappresentare (o soltanto essere interpretata dai suoi destinatari come) un "abbassamento della guardia" o un cedimento delle Istituzioni rispetto al fenomeno criminale. Proprio un timore del genere di quello appena descritto ha animato, ad esempio, sia i primi commenti al testo del nuovo regolamento elaborato in Italia per la protezione dei collaboratori della giustizia, sia i primi commenti alle prospettate modifiche al regime della custodia cautelare in carcere.
1.6. Quanto si è appena sostenuto non impone di ritenere, peraltro, che l'attuale sistema di contrasto sia un sistema perfetto e immutabile. Deve anzi dirsi che la gran parte degli operatori del settore ritiene necessario l'adeguamento di alcune norme ai modificati assetti e al modificato operare delle strutture criminali. Particolarmente avvertita è al riguardo la consapevolezza della necessità di rafforzare gli strumenti della cooperazione internazionale a tutti i livelli e in tutte le forme specie al fine di rendere più agevole la individuazione di sistemi di riciclaggio o reimpiego dei patrimoni illeciti e la conseguente aggressione di questi.

2. Verso una possibile definizione della criminalità organizzata
2.1. La necessità di pervenire alla elaborazione di un sistema normativo di contrasto caratterizzato da organicità nasce ovviamente dalla percezione, specie da parte degli organi di sicurezza e della magistratura inquirente, di non avere come "interlocutori" dei semplici gruppi "banditeschi" e delinquenziali, ma associazioni politico criminali che da sempre pretendono di esercitare sul territorio una sovranità alternativa rispetto a quella statuale e di piegare i cittadini ai propri voleri opprimendone la libertà di determinazione. Secondo una dottrina particolarmente autorevole, proprio da tale "percezione", vagamente sociologica, discende l'unica attendibile definizione dei "delitti di criminalità organizzata". Ad avviso di tale dottrina, infatti, possono ritenersi "delitti di criminalità organizzata" solo quelli che, in qualsiasi modo e a qualsiasi titolo, sono collegabili alle attività di associazioni criminali aventi le caratteristiche e le finalità "invasive" (di tipo politico o economico).
2.2. Manca, in effetti, nel nostro ordinamento, una definizione legislativa di criminalità organizzata. L'assenza determina perplessità interpretative oltre che problemi applicativi. Un'attenta lettura delle norme vigenti consente, però, di rinvenire in alcune di esse (v. spec. art. 4-bis L. 26.7.1975, n. 354 e art. 407 co. 2 lett. a) c.p.p.) una nozione di delitti e procedimenti "di criminalità organizzata" in grado di rappresentare un accettabile criterio guida per l'operatore. Allo stato attuale, il legislatore sembra infatti conoscere tre categorie dei delitti di "criminalità organizzata".
2.3. La prima categoria è costituita dai reati che sono di competenza della procura nazionale antimafia e delle procure distrettuali (e cioè tutti i delitti caratterizzati dalla mafiosità: associazione per delinquere di tipo mafioso, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti, delitti commessi al fine di agevolare l'attività delle associazioni mafiose o avvalendosi delle condizioni intimidatrici che le caratterizzano).
2.4. La seconda categoria è costituita dai reati a particolare allarme sociale per i quali la procura generale presso la corte di appello può esercitare il potere di avocazione (e cioè il potere di "sostituirsi" nelle indagini al procuratore della Repubblica che sarebbe competente secondo le regole ordinarie). Si tratta, in particolare (v. art. 372 co. 1-bis c.p.p.) dei delitti finalizzati al terrorismo o all'eversione (come le stragi, gli attentati, la banda armata, il sequestro terroristico...) e i delitti di associazione per delinquere).
2.5. La terza categoria è infine costituita da un complesso di delitti che, pur non essendo necessariamente di criminalità organizzata, possono però essere a questa funzionali (come le rapine, le estorsioni, le detenzioni di armi e lo spaccio di stupefacenti... : v. art. 118-bis att. c.p.p. in rel. all'art. 275 co. 3 c.p.p.).
2.6. Le differenze oggettivamente esistenti fra le varie categorie di delitti di criminalità organizzata comportano l'effetto che non a tutti sia riservato il medesimo "trattamento" sanzionatorio, processuale o penitenziario e che i vari strumenti di contrasto assumano una "forza decrescente" a seconda che si tratti di delitti di mafia o di delitti "genericamente o comunemente organizzati". Tipici sono gli esempi delle cc.dd. intercettazioni preventive ovvero delle perquisizioni di interi edifici (consentite solo per delitti di mafia) (v. artt. 25-bis e 25-ter D.L. 306/1992); ovvero quelli relativi alle varie gradazioni di applicabilità del "regime penitenziario di rigore" per condannati o internati (v. art. 4-bis L. 354/1975) (e che prevedono l'assoluto divieto di benefici per condannati di mafia e un "divieto condizionato" per gli altri gruppi di condannati per fatti di criminalità organizzata).

3. Le nuove ipotesi sanzionatorie in materia di terrorismo ed eversione e l'evoluzione della normativa sui collaboratori di giustizia
3.1. Fu l'impatto delle Istituzioni democratiche con il terrorismo politico a indurre il legislatore alla configurazione di nuove figure criminose specie dopo che la magistratura aveva incontrato difficoltà nell'applicare all'attività dei gruppi eversivi, operanti in Italia dalla metà degli anni '70 alla metà degli anni '80, le fattispecie in tema di delitti contro la personalità dello Stato già previste dal codice penale (v. artt. 241-313 c.p.).
3.2. Al D.L. 15.12.1979, n. 625, si devono, ad esempio, l'introduzione di nuove fattispecie associative (v. art. 270-bis: Associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico) e di nuove ipotesi di delitti specifici (v. art. 280 c.p.: Attentato per finalità terroristiche o di eversione). Si devono, però, e in particolare, anche le previsioni di nuove circostanze aggravanti e attenuanti per gli autori di reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione (v. artt. 1 e 4 D.L. 625/1979): previsioni che rappresentano il primo specifico, diretto e sistematico intervento politico-giudiziario per lo sviluppo delle collaborazioni processuali o, come altrimenti si dice, delle normative premiali o stimolatrici del "pentitismo".
3.3. Le disposizioni del D.L. 625/1979 rappresentano il primo approccio sistematico a un tema che più tardi - e sempre in materia di criminalità eversiva - formerà oggetto di progressivi affinamenti (v. L. 28.5.1982, n. 304 e L. 18.2.1987, n. 34) e che stabilirà fra l'altro la possibilità di differenziate sanzioni a seconda che le condotte degli imputati abbiano carattere pienamente collaborativo, ovvero carattere di mera dissociazione: equivalente, quest'ultima, ad un recesso dalla associazione di appartenenza non accompagnato da dichiarazioni accusatorie nei confronti dei correi o idonee a consentire la ricostruzione dei fatti criminosi ascrivibili alle medesime associazioni.
3.4. È avviso di molti che il ricorso alla normativa premiale abbia contribuito in modo determinante alla "sconfitta" dei gruppi terroristici pur se ancora si discute circa le motivazioni che indussero gli appartenenti a tali gruppi al "pentimento" e ad accettare gli effetti della sconfitta ideologica.
3.5. A ritardare l'estensione della normativa premiale prevista per i terroristi anche agli appartenenti ai gruppi criminali di tipo mafioso fu in specie, e proprio, il timore che l'assenza di motivazioni ideologiche sottostanti al compimento dei loro delitti rendesse "immorale" l'applicazione di consistenti diminuzioni di pena e di ampi benefici penitenziari. Ciò per la convinzione che i delinquenti mafiosi si inducono a offrire il loro contributo solo per fini prevalentemente utilitaristici fra i quali anche quelli della vendetta nei confronti degli appartenenti a clan avversari.

3.6. Se si prescinde da occasionali interventi premiali previsti per gli autori "dissociati" dei sequestri di persona a scopo di estorsione (art. 630 commi 4 e 5 c.p. introdotti dalla L. 30.12.1980, n. 894) e dei delitti in tema di sostanze stupefacenti (v. artt. 73 e 74 D.P.R. 9.10.1990, n. 309 aggiunti dall'art. 14 L. 26.6.1990, n. 162), fu perciò solo alla fine del 1990 che maturò definitivamente la scelta di prevedere anche per i delitti di mafia specifiche aggravanti e attenuanti oltreché un complesso di altri benefici e misure di protezione o assistenza a favore di chi decide di collaborare con gli organi di giustizia (v. artt. 7 e 8 D.L. 13.5.1991, n. 152; artt. 9-16 D.L. 15.1.1991, n. 8; D.Lgs. 29.3.1993, n. 119 e D.M. 24.11.1994, n. 687).
3.7. L'importanza della scelta allora effettuata (e successivamente affinata mediante il ricorso ad articolati meccanismi di controllo e protezione) impone un pur minimo approfondimento espositivo. Il sistema premiale vigente in Italia è applicabile a tutti i collaboratori in materia di criminalità organizzata e si articola lungo più direttive tutte fra loro strettamente connesse ed evidenzianti, fra l'altro, proprio quella interdipendenza normativa alla quale si è accennato all'inizio dello scritto.
Può brevemente ricordarsi che:
a. il sistema prevede la concessione di speciali attenuanti a favore di chi, dissociatosi dal gruppo criminale, fornisce contributi informativi sulla sua struttura e sui fatti addebitabili ai suoi componenti (v. art. 8 D.L. 13.5.1991, n. 152);
b. i collaboratori e i loro familiari possono fruire di misure e programmi di protezione (artt. 9-16 L. 15.1.1991, n. 8) alla cui applicazione provvedono appositi organismi fra i quali vanno specificamente menzionati la Commissione centrale (presieduta da un Sottosegretario di Stato e composta da due magistrati e cinque funzionari o ufficiali particolarmente esperti nelle indagini e nei processi per fatti di criminalità organizzata) e il Servizio centrale di protezione (istituito nell'ambito del Dipartimento della Pubblica Sicurezza);
c. la definizione dei programmi di protezione è preceduta dall'intervento del Procuratore della Repubblica cui spetta, in particolare, riferire sull'importanza che il contributo offerto dal "pentito" ha assunto per lo sviluppo delle indagini o per il giudizio penale;
d. i programmi di protezione (definiti con specifici "capitolati") possono stabilire, oltre ad aiuti economici, il cambiamento delle generalità (D.Lgs. 29.3.1993, n. 119), il trasferimento in luoghi protetti e qualsiasi altra misura anche in deroga alle vigenti disposizioni in materia penitenziaria;
e. i collaboratori possono fruire di benefici penitenziari (permessi premio, assegnazione al lavoro all'esterno, liberazione anticipata, liberazione condizionale, detenzione domiciliare, semilibertà, affidamento in prova al servizio sociale) in deroga a qualsiasi limite anche temporale per essi ordinariamente fissato (v. spec. artt. 4-bis 58-ter e 58-quater L. 26.7.1975, n. 354 come modif. dagli artt. 14 e 15 D.L. 8.6.1992, n. 306);
f. i collaboratori detenuti possono essere custoditi in luoghi diversi da quelli penitenziari (art. 13 e 13-bis D.L. 8/1991) quando ricorrono motivi di sicurezza e per il tempo necessario alla definizione del programma di protezione;
g. E' prevista la possibilità di colloqui investigativi finalizzati a sollecitare la collaborazione processuale in ordine alla prevenzione e repressione di delitti di criminalità organizzata (art. 18-bis L. 354/1975);
h. il collaboratore protetto può essere esaminato nel dibattimento con apposite cautele volte alla tutela del collaboratore medesimo ovvero, quando è possibile, mediante il ricorso a strumenti tecnici idonei a consentire il collegamento audiovisivo (c.d. esame a distanza: art. 147-bis att. c.p.p.).

4. Normativa premiale e normativa di rigore
4.1. Alla scelta premiale appena esposta si contrappone quella di assoluto rigore prevista dal legislatore nei confronti di chi, imputato o condannato per fatti di criminalità organizzata, omette di tenere atteggiamenti collaborativi.
4.2. Ad avviso del legislatore, infatti, con riguardo all'imputato o al condannato per delitti di mafia (o più in generale, pur se con qualche non sottovalutabile differenza, per "delitti di criminalità organizzata") solo l'atteggiamento di collaborazione è infatti in grado di provare l'avvenuta dissociazione dalla organizzazione di appartenenza. Soltanto la collaborazione può pertanto giustificare l'adozione di un trattamento non differenziato e non rigoroso. Da qui un complesso di conseguenze in tema di trattamento sanzionatorio e detentivo che può riassumersi nella applicazione di significative aggravanti per le ipotesi in cui un delitto anche ordinario (come la rapina, l'estorsione, l'omicidio) sia commesso per agevolare le associazioni mafiose o avvalendosi dei metodi di queste (art. 7 D.L.152/1991) e nella esclusione degli imputati e condannati di mafia dal novero di coloro che possono fruire di misure alternative alla detenzione (cautelare o "definitiva" e cioè conseguente alla condanna) (v. spec. art. 275 co. 3 c.p.p. e art. 4-bis L. 354/1975).
4.3. A tali previsioni di rigore si collega anche quella (v. art. 41-bis co. 2 L. 354/1975) che consente al Ministro di Grazia e Giustizia di sospendere per gli autori dei delitti di criminalità organizzata le ordinarie regole di trattamento penitenziario (specie in tema di colloqui, permanenza all'aria, ricezione di pacchi dall'esterno) e che si spiega con la accertata capacità di tali detenuti di influenzare anche dall'interno degli istituti la condotta dei complici in libertà. Anche fondandosi sulla affidabilità degli accertamenti processuali compiuti al riguardo, la Corte Costituzionale ha potuto escludere l'illegittimità delle indicate previsioni restrittive. Esse oltretutto, nella loro concreta applicazione, non comportano l'adozione di misure contrarie al senso di umanità, ma solo l'adozione di misure idonee a impedire il compimento di ulteriori delitti.
4.4. I rilievi svolti sin qui evidenziano lo stretto collegamento fra trattamento sanzionatorio e trattamento penitenziario riservato agli imputati e condannati per delitti di criminalità organizzata e chiariscono - pur se ancora solo parzialmente - l'articolarsi del sistema di contrasto privilegiato dal legislatore italiano. Va subito sottolineato che il ricorso a forme di "pragmatismo operativo" ha prodotto efficaci risultati investigativi e processuali e aperto vaste crepe nelle organizzazioni criminali.

5. Gli interventi sul processo penale e sulle strutture investigative
5.1. La necessità di rispondere al "crimine organizzato" con "moduli istituzionali organizzati" e adeguati all'effettiva realtà da contrastare è stata particolarmente sentita dal legislatore con riferimento alla individuazione di nuove strutture di indagine e con riferimento alla individuazione di "strumenti operativi" profondamente innovativi per la nostra cultura giuridica. Va da sé che le nuove strutture e i nuovi strumenti hanno costretto a modifiche normative incidenti sia sul momento della prevenzione che sulle ordinarie disposizioni processuali penali.
5.2. Quanto alle modifiche apportate alle ordinarie disposizioni del codice di procedura penale, è sufficiente ricordare che, con alcuni provvedimenti del 1991 (v. D.L. 13.5.1991, n. 152; D.L. 9.9.1991, n. 292 e D.L. 20.11.19, n. 367) e poi con il D.L. 8.6.1992, n.306 (c.d. decreto Falcone) emanato all'indomani della strage di Capaci e convertito nella L. 7.8.1992, n. 356 emanata all'indomani della strage di via D'Amelio a Palermo, furono dettate, in specie, disposizioni volte a:
a. consentire il migliore utilizzo processuale degli atti di indagine e una più agile circolazione della prova fra processi collegati;
b. tutelare la riservatezza delle fonti di prova (impedendo che l'imputato ne venisse a conoscenza troppo presto e, comunque, quando era in grado di inquinarle o comprometterne la genuinità);
c. individuare in modo innovativo l'oggetto, le modalità e i tempi delle indagini.
Le disposizioni appena ricordate hanno destato perplessità in alcuni studiosi ma hanno avuto un duplice pregio: quello di limitare al massimo il pericolo che, nella fase precedente il dibattimento, le organizzazioni criminali intervenissero a compromettere l'accertamento della verità; quello di consentire agli uffici inquirenti di procedere a "indagini segrete" per un periodo congruo rispetto alle esigenze investigative dei processi in questione.
5.3. Le disposizioni appena indicate appaiono ancor più importanti se si prova a collegarle a quelle introdotte, appena qualche tempo prima, al fine di potenziare le strutture di indagine. Basta pensare, in proposito, alla istituzione (avvenuta nel 1991) di servizi centralizzati di polizia, talora a composizione interforze, volti a coordinare le investigazioni delle altre unità di polizia in materia di reati a particolare allarme sociale ovvero, anche, a svolgere, direttamente, essi stessi, una attività di indagine caratterizzata da particolare agilità operativa e da mobilità o flessibilità sull'intero territorio. Mediante l'istituzione della Direzione investigativa Antimafia (D.I.A.) e la costituzione, per ogni forza di polizia, di servizi centralizzati anticriminalità (S.C.O. per la Polizia di Stato, R.O.S. per l'Arma dei Carabinieri, S.C.I.C.O. per il Corpo della Guardia di Finanza), si è impedito che l'attività di prevenzione o di indagine in materia di criminalità organizzata fosse dispersa fra più organismi non sempre dotati di adeguata specializzazione e si svolgesse in forme non coordinate o senza il supporto dei necessari collegamenti investigativi.
5.4. Speculare rispetto alla istituzione dei servizi centralizzati di polizia deve essere ritenuta l'istituzione delle direzioni distrettuali e della direzione nazionale antimafia e cioè di uffici del pubblico ministero espressamente delegati alle indagini sui delitti di mafia.
5.5. Si discute oggi se, per rendere ancora più efficace il contrasto alle organizzazioni mafiose sia opportuna anche la costituzione dei cc.dd. Tribunali Distrettuali Antimafia: vale a dire l'attribuzione a tribunali aventi sede nel distretto della corte di appello del potere di decidere sui procedimenti dalle direzioni distrettuali e "coordinati" dalla Direzione Nazionale Antimafia; organismo quest'ultimo a capo del quale sta il procuratore nazionale antimafia e che rappresenta in primis un organismo di coordinamento finalizzato a dare impulso e completezza all'attività investigativa mediante l'acquisizione e l'elaborazione di dati oltreché la diretta disponibilità della polizia giudiziaria.
5.6. Sempre con riguardo alle nuove strutture di indagine e al loro operare non può poi dimenticarsi che ad esse il legislatore ha attribuito un complesso di poteri di tipo anche preventivo e non solo processuale e, fra questi, il potere:
a. di procedere ad intercettazioni di conversazioni e comunicazioni (anche ambientali) per prevenire e informarsi in ordine a delitti di mafia (art. 25-ter D.L. 306/1992);
b. di richiedere e disporre misure di prevenzione speciali (come il soggiorno cautelare) nei confronti di coloro che si accingono a compiere gravi delitti di mafia (art. 25-quater D.L. 306/1992);
c. di compiere operazioni sotto copertura finalizzate ad acquisire, mediante l'infiltrazione e l'inserimento clandestino nel circuito illecito, elementi di prova in materia di traffico di stupefacenti, riciclaggio e traffico d'armi (v. art. 97 T.U. 9.10.1990, n. 309; art. 12-quater D.L. 306/1992);
d. di avvalersi delle notizie procurate dai Servizi di Sicurezza: Servizi la cui attività informativa è quindi ora rivolta anche nei confronti dei gruppi criminali organizzati che minacciano le istituzioni e lo sviluppo della civile convivenza (art. 2 co. 1 D.L. 345/1991).
5.7. I poteri di investigazione anche preventiva appena indicati sono estremamente utili ma presentano aspetti di insidiosità e invasività che non possono essere sottovalutati. Per questi motivi, l'ordinamento ne ha ristretto i margini operativi (sia con riferimento ai soggetti legittimati sia con riferimento alle modalità di attuazione e durata) e li ha spesso sottoposti al controllo dell'autorità giudiziaria.
5.8. Il rilievo consente di sottolineare qui quanto sia importante che l'approccio di nuovi strumenti di contrasto della criminalità organizzata avvenga sempre secondo forme professionali e da parte di soggetti estremamente qualificati. Occorre infatti evitare che la valutazione in sede processuale degli esiti investigativi conseguenti all'utilizzo di tali strumenti possa essere inficiata o compromessa da diffidenze, sospetti, tentativi di strumentalizzazione. Quanto appena detto vale ovviamente anche (e forse principalmente) per le tematiche concernenti la "gestione" giudiziaria e di protezione dei collaboratori di giustizia. Per essi occorre evitare, in specie, il pericolo che si sospetti la concertazione delle dichiarazioni accusatorie o si dubiti della genuinità degli elementi di prova acquisiti.

6. Alcuni approfondimenti sul versante del diritto sostanziale
6.1. Come si è accennato, il complesso degli interventi di contrasto fin qui descritti nasce dalla interpretazione delle condotte tenute dalle associazioni criminali da affrontare e dalla individuazione dei loro possibili, eventuali "punti deboli".
Specie con riguardo agli aspetti di diritto penale sostanziale, le più recenti iniziative legislative adottate in Italia hanno tratto spunto proprio dalla accertata inadeguatezza delle ordinarie fattispecie criminose a colpire le tipologie di condotta della criminalità organizzata. Dalla inadeguatezza della fattispecie associativa comune nasce, ad esempio, la scelta di introdurre nel sistema la fattispecie del delitto di associazione di tipo mafioso, quella del delitto di scambio elettorale politico mafioso e l'intero complesso di misure dirette a impedire il riciclaggio e il reimpiego del denaro sporco o ad aggredire i "patrimoni sospetti".
6.2. L'esperienza giudiziaria dell'ultimo decennio si è incaricata di dimostrare come la fattispecie del reato associativo specifico costituisca un vero e proprio punto di riferimento normativo, assolutamente necessario nel contesto della lotta alla criminalità organizzata. La previsione dell'art. 416-bis c.p. consente invero di ricomprendere e sanzionare il vario articolarsi delle attività della criminalità organizzata con specifico riguardo alla valenza dei vincoli associativi, alle condizioni di omertà, alla finalizzazione verso il controllo di attività economiche e, in specie, di appalti pubblici, alle interferenze dirette a ostacolare la libera espressione del voto (v. anche, in proposito, l'art. 416-ter c.p. che sanziona lo scambio elettorale politico-mafioso e cioè la promessa di voti in cambio della erogazione di denaro: realtà che le indagini in tema di criminalità organizzata si sono incaricate di inquadrare e segnalare come uno dei più insidiosi terreni di intervento delle associazioni di tipo mafioso).
6.3. Analoga significatività assume, allo stato, la fattispecie del delitto di riciclaggio (artt. 648-bis e 648-ter c.p.) recentemente ridisegnata sulla scorta delle esperienze giudiziarie e delle risultanze della Convenzione di Strasburgo del 1990. Nella lotta al crimine organizzato è infatti fondamentale l'intervento diretto a impedire sia la infiltrazione di capitali illeciti nelle zone più sviluppate del Paese sia il dirottamento strumentale di tali capitali verso quegli Stati che già si attrezzano a meglio "riceverli".
6.4. L'elaborazione di un sistema di effettivo controllo e di intervento in materia di riciclaggio richiede peraltro competenze specifiche e una attitudine investigativa diversa da quella di tipo tradizionale.
Da qui alcune delle più consistenti difficoltà nel "colpire" il fenomeno e nell'impedire il verificarsi di progressive "invasioni" nazionali e internazionali nell'economia legale (anche mediante la rilevazione di imprese, l'espandersi dei prestiti usurari, il progressivo utilizzo delle case da giuoco ).
6.5. La materia, ricomprendente anche la "rivisitazione" del delitto di usura, non va solo ordinata, ma completamente rielaborata tenendo conto fra l'altro delle oggettive difficoltà connesse con gli accertamenti patrimoniali, dell'attuale assenza di un sistema centralizzato di dati utili alla effettuazione dei più approfonditi controlli, della contestuale assenza di previsioni normative idonee a colpire concretamente le fittizie interposizioni personali e le società di comodo. In molti casi la scoperta dell'operazione di riciclaggio è resa ancora più complessa dal fatto che la criminalità organizzata di tipo mafioso modifica tempestivamente le tecniche del "reimpiego" dei capitali ed esercita spesso una pressione crescente anche su imprenditori "puliti" per costringerli a fungere da insospettabili schermi per operazioni di riciclaggio.
6.6. A tal proposito, può dirsi che con l'introduzione del D.L. 143/1991 (conv. con modif. nella L. 197/1991) il nostro ordinamento si è posto in una giusta prospettiva di intervento definendo come oggetto primario di indagine le operazioni sospette (anziché le persone) e rivoluzionando il ruolo degli operatori bancari o finanziari.
Le recentissime modifiche apportate con L. 328/1993 alla disposizione penale sul riciclaggio (art. 648-bis c.p.) e la previsione che tale reato si concreta ora anche quando il reato presupposto è un qualsiasi delitto non colposo (e non solo quando è un delitto di rapina, estorsione, sequestro o traffico di droga) possono certamente incidere anche sul funzionamento del sistema della segnalazione delle "operazioni" da parte di responsabili degli istituti di credito agevolandone il compito e non imponendo loro l'"impossibile" accertamento sulla provenienza del denaro che forma oggetto della operazione stessa.
6.7. Così come è da ricordare, sempre in tema di riciclaggio, l'importanza delle già ricordate previsioni di cui all'art. 12-quater D.L. 306/1992 che consentono a ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti a organismi specializzati di effettuare "riciclaggi simulati", e cioè di compiere simulatamente operazioni-sotto copertura, così infiltrandosi nel circuito illecito al fine di pervenire alla scoperta delle varie ramificazioni della organizzazione criminale.
6.8. È comunque certo che una organica strategia anticriminalità non può prescindere dalla necessità di una effettiva aggressione dei patrimoni mafiosi.
Da più parti si lamentano l'insufficienza degli strumenti di contrasto e, ancor più, le difficoltà connesse con la loro attuazione pratica.
Sono perciò allo studio nuove e compiute linee di intervento che si muovano sia sul piano puramente investigativo sia su quello del processo (anche di prevenzione) e della sensibilizzazione sociale.
A tal riguardo sono stati fatti di recente molti passi in avanti anche sotto l'aspetto strettamente normativo. Può infatti sperarsi che benefici effetti possano in un prossimo futuro conseguire dall'oculata applicazione delle nuove previsioni che consentono il sequestro (durante il processo) e la confisca (in caso di condanna) di interi patrimoni "sospetti" quando questi risultino ingiustificati e sproporzionati rispetto al reddito dichiarato o all'attività svolta dall'imputato o dal condannato per fatti di mafia (v. art. 12-sexies D.L. 306/1994 aggiunto con L. 501/1994).

7. Conclusioni
7.1. L'importanza dell'intervento legislativo operato con l'art. 12-sexies D.L. 306/1992 è di tutta evidenza. Assolutamente nuova è per il nostro ordinamento la previsione di una sorta di inversione dell'onere della prova in presenza di imputazioni che presuppongono un atteggiamento delinquenziale continuativo e progressivo di per sé conseguente all'adesione a gruppi criminali organizzati.
7.2. Assolutamente necessari sono però, in questo campo, come in genere in tutte le attività che coinvolgono i gruppi criminali appena indicati, un forte contributo di cooperazione internazionale e una tendenziale convergenza di interessi e di intenti degli Stati coinvolti.
7.3. Tutto ciò senza dimenticare, peraltro, che la lotta alla criminalità organizzata non va operata solo sul campo della investigazione o sul campo processuale. L'impegno istituzionale deve infatti svilupparsi anche prima e fuori della repressione del reato, dispiegandosi ai diversi livelli nei quali si collocano, più o meno direttamente, i corrispondenti fattori criminogeni. Da qui l'attenzione al risanamento del tessuto sociale e a una politica di sviluppo economico delle "aree depresse": attenzione indispensabile sia per evitare che propongano le organizzazioni criminali come valida alternativa alla povertà sociale sia per agevolare la diffusione di un convinto costume di rispetto della legalità.

La versione integrale del n. 4/2011 sarà disponibile online nel mese di maggio 2012.